PREMIO LETTERARIO PANCHINA

MANI

di Massimo Padua

 

C’è una grande confusione nella mia testa. E meno male. Tutto quello che può servirmi a distogliere il pensiero da ciò che mi circonda è ben accetto. Di tanto in tanto mi viene da ridere, ma cerco di trattenermi. Non voglio dimostrare di essere un pazzo. Almeno, non più di quanto abbia già fatto. È così che le persone tendono a considerarmi. Ma cosa ne sanno loro? Loro non sono qui. Non stringono tra le mani quello che stringo io, non sanno neppure immaginare una vita diversa da quella che conducono. Per certa gente, l’esistenza sembra già programmata fin dalla nascita. Come se il destino fosse inciso nel DNA. E in fondo, forse hanno ragione. Chi può dirlo? Ricordo che da piccolo ero solito sbraitare quando la cena non era di mio gradimento. Tenevo stretti nei pugni il coltello e la forchetta. Già allora avrei dovuto comprendere. Il mio cammino era cominciato, e io non lo sapevo. Come avrei potuto? E che dire del parco giochi sotto casa mia? Non c’era giorno che non mi fermassi almeno qualche minuto sull’altalena. Anche in quel caso le mani stavano serrate attorno alle corde. Le mie mani… Quante cose possono fare le mani di un uomo! Con le mie mani ho stretto tante cose. A volte è stato piacevole, come quando affondavo con delicatezza le dita nei fianchi della mia donna mentre la possedevo. Ho stretto le mani a pugno e ho esultato tutte le volte che la mia squadra preferita ha vinto. Ho stretto troppo forte il mazzo di fiori, al funerale di mia madre. Credevo di morire anche io, quel giorno. Ma non è successo. Avevo ancora molta strada da percorrere. Dovevo ancora conoscere la gioia di diventare padre. E quante volte ho stretto le manine dei miei figli! Ora non so nemmeno dove siano finiti, i miei bambini. Saranno cresciuti? Non so. Non riesco a pensare al tempo, in questo momento. Non mi conviene farlo. Se cedessi all’impulso di soffermarmi a ragionare, allora sì che impazzirei davvero. Non ho il coraggio di aprire le mani. Aprirle significherebbe lasciare questo riparo che, per quanto terribile, mi mantiene in vita. Significherebbe lasciare andare ogni cosa che ho già perduto. È buffo, ma ho l’impressione che anche i ricordi vivano in me soltanto perché riesco a stringere le mani. Allora, perché ho fatto ciò che ho fatto? Forse perché non potevo tollerare l’idea di vivere lontano dai miei figli. Oppure per il semplice fatto di essere pazzo. Non ho mai potuto sopportare la possibilità che qualcuno faccia del male ai bambini. Del male, non so se mi spiego… Forse esistono altri padri che non avrebbero reagito davanti alla conclamata realtà di abusi sui propri figli. Mi dispiace, ma io non ce l’ho fatta a starmene con le mani in mano. E non mi interessa se c’è chi sostiene che io mi sia inventato tutto. Con le mani si fanno tante cose, e non sempre queste cose vengono bene. Non sempre sono innocue. Lui, il nuovo compagno della mia donna, non meritava di vivere. Ma neppure io, secondo la legge di questo paese. Secondo la legge di questo paese, io ho stretto le mani attorno al collo di un innocente, un poveraccio la cui unica colpa era quella di essersi innamorato della mia donna.

Alle mie spalle, c’è una parete grigia, che non vede mai la luce. Aggrappato ad essa, come un geco che non vuole andarsene, c’è un orologio. Uno strumento tanto crudele quanto necessario. TIC TAC. La mia compagnia, per troppo tempo, è stato proprio questo mormorio incessante e monotono. TIC TAC.

Tra non molto non lo sentirò più. Ma fintanto che le mie mani stringeranno forte il mio destino a forma di sbarre, potrò dirmi vivo. Poi si vedrà.